Si riporta qui di seguito un articolo pubblicato su leccecronaca.it:
Quelli che non fanno mai le tangenziali e le autostrade, io (quando sono solo in macchina, ovvio e guido io). Ancora una volta, premiato, perché per stradine contorte e strette, a Cellino San Marco ho risentito le canzoni di Albano, vabbè nella mia fantasia, però nella realtà ho visto di passaggio una Oria talmente splendida a prima vista, che mi ci volevo fermare, e comunque ci ritornerò, io, che non la conoscevo, non ci posso credere, perché non ero mai andato a Oria prima di ieri? Francavilla Fontana, alla porte del Salento, era feudo di Oria, ho letto.
Il Castello degli Imperiali si chiama così dalla famiglia che a più riprese lo fece costruire. E’ una costruzione strana, di un Medioevo già superato, è più che altro un palazzotto fortificato, ma mercoledì sera non ho parlato del passato, ho parlato di futuro. Una bella serata, arricchita da esibizioni musicali, letture e interpretazioni e performance artistiche, per di più in uno spazio recuperato e per la prima volta adibito a manifestazioni culturali. Tanto pubblico, politici in prima fila, artisti, volontari, animatori culturali, tantissima gente, tutto inusuale, almeno per una presentazione di un libro, di un’esordiente per di più, di una ragazza, Erica Zingaropoli, che ha fatto una scelta di vita, anche per andare a scoprire sé stessa, i suoi mondi sconosciuti, per superare i limiti e i confini dentro cui ognuno di noi è rinchiuso, ma superati i quali tutto diventa possibile, e così è andata alla scoperta dell’Africa, che poi ci ha raccontato in questo suo romanzo di esordio “L’Africa di Erica”, Pubblicazioni Italiane, Taranto, 2014, 100 pagg., euro 18, in un volume ricco di immagini, e ancor di più di lucida analisi, con occhi disincantati e veritieri.
La veste grafica eccellente, e di questo bisogna dar conto all’editore, rende merito al valori dei contenuti, di cui bisogna render grazie all’autrice. Romanzo? Che dico romanzo? E’ una serie di scene, o racconti, un reportage più che di viaggio, di permanenza, un diario delle scoperte, delle sensazioni, dei pensieri che questa permanenza ha generato. Hemingway, più che Conrad, Moravia, più che la Blixen, e scusate se è poco, nel filone letterario in cui questa eccellente opera prima va collocata. Lo stile, poi, maturo, a dispetto dell’età e dell’esperienza, uno strumento che serve a calibrare immagini e suoni, pensieri e parole, odori e impressioni che Erica Zingaropoli sapientemente registra, filtra e rende ai suoi lettori. Lo scrivo adesso, perché non mi ricordo se l’ho detto ieri sera. Infatti, quando è toccato a me parlare, mi sono ben presto levate di dosso le paludate vesti del critico letterario, per tenermi quelle mie solite, dell’intellettuale che, ligio agli insegnamenti pasoliniani, deve provocare, scandalizzare e bestemmiare e stare sempre dalla parte degli ultimi, degli umili, degli indifesi. I libri non sono di chi li scrive, i libri sono di chi li legge.
A me questo ha fatto nuova rabbia e lucida convinzione. Pensiamo agli Africani come se fossero geneticamente condannati da chissà quale maledizione biblica a stare depredati, sfruttati e marginalizzati. Invece è colpa nostra, di noi Occidentali, che prima li abbiamo schiavizzati, poi abbiamo portato loro guerre e violenza, li abbiamo privati delle loro risorse naturali e delle materie prima e li abbiamo plagiati a nostra immagine e somiglianza, quella di un modello di così detto sviluppo, che qui da noi produce egoismo, disuguaglianze sociali, ingiustizie e là ha prodotti sfaceli a ciclo continuo. Li abbiamo uccisi e fatti uccidere, per poi lamentarci dei profughi che arrivano da noi, dei quali ci sentiamo migliori e li disprezziamo.
O degli immigrati, che sfruttiamo nelle abitazioni affittate di Torino, nei mobilifici della Brianza, nei campi della Capitanata e del Salento. Al colonialismo dei mercanti di esseri umani, di armi e di preziosi, abbiamo sostituito quello dello sfruttamento delle multinazionali della globalizzazione. Solamente da poco la parola schiavitù fa ribrezzo. La parola guerra non lo fa ancora. Sono processi lunghi, ci vogliono decenni e forse secoli, ma in qualche modo bisogna pur cominciare, a costruire la cultura del dialogo, del confronto, della pace, a cercare cioè un nuovo tipo di modello di sviluppo, come quello indicato dagli economisti filosofi alla Amartya Sen e alla Serge Latouche, cioè a concretizzarlo, a riprenderci le leve della partecipazione e della decisione politica, a immaginare alla John Lennon, cioè a fare realtà dei suoi sogni. Ecco, con serate come quella dell’altra sera a Francavilla Fontana, il futuro è già cominciato, un futuro in cui forse un modo migliore sarà ugualmente impossibile, ma una vita migliore per ciascuno di noi, almeno un poco, almeno questo, probabilmente sì.
Giuseppe Puppo