Francavilla, il ragionier De Franco ne ha combinata un’altra delle sue: dette dei “mafiosi” su facebook a Curto e Vitali senza averne le prove, e il giudice alla fine ha condannato pesantemente lui. Ecco le motivazioni della sentenza.
Sedici. E’ il numero di pagine contenenti le motivazioni della sentenza con la quale lo scorso 20 luglio il giudice del tribunale di Brindisi Ambrogio Colombo ha condannato il sindacalista francavillese del Mab Antonio De Franco per “diffamazione” nei confronti dell’ex senatore Euprepio Curto difeso dall’avvocato Domenico Attanasi e dell’ex deputato Luigi Vitali. Dell’esito del processo abbiamo già parlato in questo articolo. De Franco è stato condannato a versare a Curto e Vitali 10mila euro a testa quale risarcimento per il danno loro arrecato, per aver scritto nel gruppo Facebook “Francavilla Vistadame” le seguenti frasi: “Vitali e Curto ed altri capetti erano amici dei criminali. Per chi votava la frangia francavillese della Scu? Per me?”.
Oggi, a due mesi di distanza dal dispositivo, arrivano anche le motivazioni che spiegano le ragioni che hanno indotto il magistrato a condannare De Franco pure con una multa di 900 euro.
Il provvedimento ripercorre, nelle 16 pagine, le fasi del procedimento penale, dalla querela sporta dai due ex parlamentari nel marzo 2013, fino al suo epilogo, soffermandosi a lungo su quelle pieghe della giurisprudenza che acclarano come Facebook e i vari social network siano a tutti gli effetti delle “piazze” sì “immateriali”, ma abitate e frequentate da centinaia, migliaia, milioni se non miliardi di utenti, dove un insulto, un’offesa, una diffamazione, restano tali anche se virtuali, e come tali vanno trattate.
C’è un passaggio però fondamentale per comprendere le ragioni della condanna di De Franco. Posto che accusare dei cittadini di connivenza con la mafia senza poi portare seco le prove è diffamazione, De Franco ha cercato di difendersi nel processo sostenendo di non aver scritto lui quelle frasi. Una posizione che avrebbe potuto avere anche un senso, e perfino riscontro con la realtà. Non sarebbe stato infatti il primo caso di “identità rubata”, né l’ultimo. Ma per il giudice non è questo il caso.
“Non risulta che in seno a tale dibattito – scrive il giudice – il De Franco, nella immediatezza dei fatti abbia mai negato di essere l’autore dello stesso e/o lamentato di aver subito furto di identità in relazione al proprio profilo Facebook, né risultano denunce nelle apposite sedi”. “Nemmeno risulta – si legge ancora nella sentenza – che egli abbia mai preso le distanze dal messaggio ‘incriminato’ e dal suo contenuto. Anzi sono stati portati all’attenzione del tribunale elementi di sostegno totalmente opposto”. Tra questi, articoli di stampa nei quali De Franco afferma che lo scopo della querela di Curto e Vitali era quello di “mettere a tacere le voci libere”.
Fino all’ennesimo post di conferma di De Franco: “I fatti specifici attribuiti ai signori che si sono lagnati con la querela sono una realtà, un dato di fatto della vita politico amministrativa francavillese dalla metà degli ’90 al 2010”. Insomma, la scusa del “non sono stato io”, strategia successiva all’invocazione della libertà di pensiero, non ha retto. Di qui la condanna.
E a nulla è valso neppure il tentativo di ribaltare il piano accusatorio da parte dello stesso sindacalista: la sua querela per calunnia nei confronti di Curto e Vitali ha sortito, infatti, un’immediata archiviazione.
Ora a De Franco toccherà metter mano al portafogli e, se riterrà, darsi per il futuro una regolata, quanto meno racimolando prima le prove a supporto di suoi insulti, tesi, j’accuse spesso e volentieri infondati o farneticanti.