Il maxi-deposito di scorie nucleari potrebbe sorgere a due passi da casa nostra

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Le scorie nucleari di tutta Italia potrebbero essere smistate in Puglia, una delle possibili location indicate dal governo come ideali per la nascita del maxi-deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. In particolare, si starebbe pensando alle Murge e al Salentco. La differenza sarebbe sostanzialmente nulla tra la prima e la seconda ipotesi, giacché rifiuti di quel genere sono potenzialmente in grado di danneggiare porzioni di territorio collocate anche a considerevole distanza dal loro “epicentro”.

Una prima decisione da parte del governo centrale potrebbe giungere già tra poche ore, quando sarà adottata la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Seguirà poi una fase di consultazione pubblica. Delle analisi per la ricerca del sito più idoneo, sulla base di requisiti geografici e geofisici, si occupano l’Ispra (Istituto superiorre protezione e ricerca ambientale) e la privata Sogin.

Oltre alla Puglia, tra le regioni poco lusinghieramente papabili ci sarebbero la Basilicata, il Molise e aree costiere di Campania, Lazio e Toscana, sebbene dalle zone balneari sia necessario rispettare una distanza minima di cinque chilometri.
Il direttore generale Ispra, dottor Stefano Laporta, nel corso di un’audizione al cospetto della commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e sugli illeciti ambientali a esso correlati, ha evidenziato come, nonostante in Italia non vi siano centrali nucleari attive, esistano tuttora quantitativi non trascurabili di rifiuti radioattivi risalenti ai decenni antecedenti lo “stop” al nucleare, oltre che sorgenti di radiazioni derivanti dalla ricerca in campo medico-scientifico (leggasi: radiofarmaci a fini diagnostici e terapeutici) e industriale. A essi si devono aggiungere i rifiuti energetici non ancora condizionati, ossia non del tutto sicuri.

Ma cosa sarà, in definitiva, questo deposito nazionale che si rischia di ritrovarsi a due passi da casa? Stando a quanto stabilito nell’articolo 2, comma 1, lettera e) del decreto legislativo numero 31 del 2010, esso sarà destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività derivanti da attività industriali, di ricerca e medico-sanitarie, oltre che dalla pregressa gestione degli impianti nucleari. Inoltre, servirà a all’immagazzinamento, a titolo provvisorio ma di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato provenienti dalla pregressa gestione degli impianti nucleari. Tradotto: pericolosi, molto pericolosi. Ma, come sempre, è l’Europa (direttiva 2011/70 Euratom) a chiederlo. E il governo, o chi per lui, ad avere un occhio di “riguardo” per il Sud.

Gli Enti locali avranno a disposizione 120 giorni dalla pubblicazione della Carta per formulare eventuali osservazioni. Alla scadenza, la Sogin darà il via al seminario nazionale e in 90 giorni verrà presentata la Carta aggiornata e definitiva, poi altri 60 giorni per il parere definitivo dei due ministeri coinvolti.
Ma, più precisamente, dove potrebbe sorgere, nel Salento, questo deposito? Pare che il sito di Nardò sia considerato tra i più appetibili, oltre a diverse località della Murgia e siciliani (anche se a distanza di sicurezza dai vulcani).

Dietro l’obiettivo ufficiale della Sogin – gestire l’uscita definitiva dell’Italia dal circolo vizioso del nucleare – sorgono però diverse perplessità. A sottolinearle anche la commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Alessandro Bratti, che il 6 agosto scorso ha completato la prima relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi (relatori i deputati Dorina Bianchi e Stefano Vignaroli) pronta per essere esposta in parlamento dopo la pausa estiva.

Stando a quanto riportato dal fattoquotidiano.it, non c’è da stare tranquilli per tutta una serie di motivi. Il regime transitorio, avviato nel 2009, non sarebbe più procrastinabile e dunque andrebbe chiuso. Come andrebbe ridimensionata la funzione di garante svolta dall’Ispra, che conta 35 tecnici, molti dei quali di età superiore ai 55 anni. Ma a un organo così importante si chiede di più. Il nuovo soggetto – l’Isin, Ispettorato per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (ISIN), istituito con il decreto legislativo numero 45 del 2014 – è «tuttora inesistente per la mancata nomina dei suoi organi». Il direttore designato, Antonio Agostini, dirigente del Ministero dell’Ambiente individuato dal governo Renzi, è una figura contestata e implicata in vicende giudiziarie tuttora pendenti.

In più, la Sogin è alle prese con le divisioni interne che, oltre a non dare certezze, producono ritardi e costi maggiori allo Stato. Il dissidio tra Riccardo Casale, ad di Sogin, e Giuseppe Zollino, presidente di Sogin, sono state oggetto di attenzione anche da parte della commissione parlamentare d’inchiesta, la quale ha richiamato la società a una maggiore compattezza soprattutto in vista della realizzazione di quel deposito nazionale preludio alla completa dismissione del nucleare nel Belpaese.

Un obiettivo a lungo, lunghissimo termine, solo se si si considera che le scorie naturali possono produrre effetti dai 300mila anni al milione di anni: generazioni e generazioni a rischio, insomma. Ma per sapere dove e quando il deposito sorgerà, sarà necessario attendere il 2016. Per ora desta non poca preoccupazione il fatto che, come spesso accade ed è accaduto in passato, la Puglia rientri tra le possibili regioni ospitali. Dopo l’Ilva, dopo il carbone, dop le trivelle nel mare, dopo i depuratori che, come funghi, ne minano l’appetibilità delle coste e dopo tutta una serie di sgarbi ambientali che ne hanno deturpato la reputazione e soprattutto la salubrità. Provocando, dati alla mano, migliaia di morti e di ammalati.

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