Fu licenziata quando il suo titolare scoprì che giocava alle slot machine anziché servire pizze e caffè. Il titolare della pizzeria, con sede a Torre Santa Susanna, disse alla sua collaboratrice che non l’avrebbe denunciata ma soltanto licenziata per giusta causa.
Il datore di lavoro, nonostante la clemenza di fondo dimostrata, non prese affatto bene ciò che dopo anni aveva scoperto e successivamente, in più occasioni, lo fece presente anche tramite messaggi alla sua ormai ex collaboratrice che tra l’altro si occupava della cassa. Passò qualche tempo e la donna passò al contrattacco: intanto pretendeva il suo trattamento di fine rapporto e promosse vertenza dinanzi al giudice del lavoro; poi fu lei a denunciare il suo ex titolare nientemeno che per estorsione, proprio per via di quei messaggi da lei ricevuti. Toni accesi, frasi colorite, astio profondo eppure giustificabile.
A dire della donna, infatti, l’esercente l’avrebbe minacciata per “sconsigliarle” di sostenere i propri diritti, altrimenti si sarebbe potuto in qualche modo vendicare. Se da un lato il giudice del lavoro ha riconosciuto alla donna il suo trattamento di fine rapporto, sull’altro versante – quello penale – un altro giudice ha assolto l’ex datore, difeso dall’avvocato Michele Iaia del Foro di Bari, che non le avrebbe estorto alcunché. Nessuna estorsione ma esercizio arbitrario delle proprie ragioni, reato procedibile soltanto a querela di parte. Ormai si è fuori tempo.
L’uomo, scosso dopo aver scoperto con ogni probabilità degli ammanchi nel registratore di cassa e aver cercato una mediazione – non la denuncia per furto, ma il licenziamento sì – pare avesse delle comprensibili motivazioni per serbare quel minimo di rancore tipico di chi ha il dente avvelenato. Qualche offesa magari sì, ma non sconfinante nell’estorsione né tantomeno nella violenza fisica.
Una scusante ovvero un cavillo, sostenuta dal legale di fiducia, che a processo è stata condivisa dal magistrato Simone Orazio del Tribunale di Brindisi, malgrado la pubblica accusa avesse chiesto per il titolare della pizzeria una condanna a due anni di reclusione oltre che ovviamente al pagamento delle spese processuali.
Peraltro, dopo aver incassato la condanna in sede civile senza essersi opposto, l’uomo aveva già saldato il suo debito nei confronti dell’ex dipendente, cui erano state corrisposte le somme relative al tfr: circa 14 mila euro a fronte di una collaborazione durata poco meno di dieci anni.
Per lui fu dura accettare il fatto che una sua collaboratrice di fiducia, cui aveva offerto un posto anche di responsabilità in pizzeria, giocasse troppo alle slot e fosse probabilmente avvezza a dissipare parte dei guadagni nel gioco. Le slot, perfettamente legali e collegate alla rete dei Monopoli di Stato, erano collocate nello stesso locale pubblico in cui sia il titolare che la dipendente lavoravano.
Nulla di male, dunque, se la donna avesse svolto la propria mansione con maggiore rettitudine e se non avesse approfittato della fiducia di cui finora ad allora aveva goduto, prima di essere scoperta nelle sue presunte malefatte. Una ruota della fortuna che purtroppo per lei in quest’occasione è girata male.