Schermaglie tra parenti per questioni legate alla proprietà, per il giudice lo staking non sussiste

Il fatto non sussiste. Con questa formula sono stati assolti dalla giudice del Tribunale di Brindisi padre e figlio che erano stati querelati dal fratello del primo (zio del secondo) per atti persecutori. Fra i tre – tutti residenti a San Pietro Vernotico – non corre buon sangue da un po’ di tempo e in particolare da quando, nel 2018, il querelante si è trasferito a casa della madre 93enne per assisterla moralmente e materialmente.

L’abitazione è di proprietà di tre fratelli: querelante, querelato e una sorella che in questa storia non c’entra. Il fatto che il querelante fosse tornato nella casa materna non andò giù al fratello e al figlio di costui, i quali non mancarono di esprimere in diverse forme il loro disappunto, anche redarguendo la donna.

Non piacque loro neppure che il congiunto avesse cominciato a fare degli aggiustamenti domestici, come per gli impianti elettrico e idrico, gli intonaci, la tinteggiatura, ecc., tanto che a un certo punto l’inquilino si vide recapitare una lettera legale, indirizzata alla genitrice, con la quale si diffidava quest’ultima dal far effettuare ulteriori lavori.

L’avvocato Michele Iaia

Per tutta risposta, il vero destinatario della diffida, fece scrivere una risposta a un altro avvocato in nome e per contro della madre per spiegare come quegli interventi servissero in realtà a rendere agibile l’immobile. I momenti di tensione e ansia tra le parti non si allentarono, anzi. Il querelante per stalking denunciò il danneggiamento, ad opera dei parenti, di una telecamera di sorveglianza che egli stesso aveva fatto installare sul retro della casa. Per contro, quelli denunciarono l’appropriazione indebita – ad opera del querelante – di un motocoltivatore appartenuto al padre e spostato dal garage in cui si trovava: il denunciato si difese spiegando di averlo spostato per ripararlo e poterlo utilizzare per sistemare le campagne di famiglia incolte e abbandonate. Non finisce qui. Un giorno – era il 18 aprile 2020 – zio e nipote percorrevano via Vanini a Cellino San Marco, il primo con un furgone, il secondo con una station wagon.

L’auto del nipote procedeva a passo d’uomo, quindi lo zio al volante del furgone decise di sorpassarla: fu in quel momento che il nipote accelerò improvvisamente e, nell’impedire il superamento del furgone, costrinse lo zio a impattare contro il marciapiedi alla sinistra della carreggiata (con danneggiamento di uno pneumatico, la cui riparazione costò 135 euro). Poi l’auto proseguì nella marcia, con il conducente che fece il gesto delle corna e, ridendo, grido dal finestrino: “Fallito!”. Inoltre, in più occasioni sempre il nipote 38enne avrebbe apostrofato lo zio come “fallito”: in piazza, di notte sotto casa, in presenza di altre persone.

Questa, almeno, la versione rappresentata dalla presunta vittima, che decise di denunciare i fatti ai carabinieri, chiedendo che fosse punito in particolare suo nipote. Quest’ultimo e suo padre si rivolsero all’avvocato Michele Iaia del foro di Bari che, a processo, è riuscito a ridimensionare le tesi dell’accusa. Il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. Per la giudice del Tribunale di Brindisi Tea Verderosa, invece, il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza sarà depositata entro 90 giorni.

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