di Leonardo Andriulo*
la differenza tra l’ingiuria (art. 594 c.p.) e la diffamazione (art. 595 cp)
Continuando nel solco dei reati che si consumano quotidianamente su internet e cercando sin da subito di creare interesse nella lettura affermiamo che “quando l’insultato è online, non scatta il reato di diffamazione”.
Ma procediamo per gradi
Con questo articolo ci si propone l’analisi di un caso conclusosi favorevolmente per l’imputato. La sentenza in esame è stata licenziata dalla Suprema Corte Cassazione Penale della Sez. V., lo scorso 2 dicembre 2021, numero 4462. Caso risolto dai giudici del Palazzaccio, nel quale si ritrova una interessante argomentazione favorevole per chi viene coinvolto nel reato di diffamazione (aggravata) consumata all’interno di un social network come facebook, linkedin o tanti altri.
Il principio di fondo
“Se l’offesa è consumata mentre l’insultato è online, non vi è il reato di diffamazione”.
Il caso è pregevole anche perché l’iter processuale è stato molto travagliato. L’imputato veniva condannato per ben due volte (sia in primo grado, che in appello) per il reato di diffamazione aggravata. Totalmente assolto, poi, in Cassazione.
Come è facile immaginare, per l’imputato e la di lui difesa, non è stato facile avere ragione. Gli effetti negativi di due sentenze pesano; sia sotto il profilo penale (la pena per il reato di reato di diffamazione aggravata, argomento qui affrontato, è massimo di anni 3) sia dal punto di vista civile, per quel che concerne le statuizioni civili in favore dell’offeso.
Il fatto – Come è stato accertato il reato di diffamazione?
Anche la fase istruttoria del processo è stata abbastanza complessa, per via delle verifiche tecniche informatiche svolte, ed è stato accertato durante il dibattimento che:
“l’imputato pubblicava su una chat, dove era anche presente la persona offesa, insieme ad altri utenti, una serie di frasi offensivi verso la parte offesa”.
L’importanza di un team di avvocati esperti, con l’ausilio di consulenti informatici, nonché la caparbietà dell’imputato nell’aver resistito fino al terzo grado di giudizio, hanno portato ad avere un risultato, come già anticipato diametralmente opposto a quello avuto nei primi due gradi di giudizio: l’assoluzione dal reato di diffamazione
Al fine di semplificare la lettura e senza appesantire con concetti “troppo tecnici”, fermo restando l’elencazione delle varie motivazioni/eccezioni addotte in Cassazione, si vuole evidenziare la parte del ricorso che nello specifico ha convito il Giudice Supremo.
La strategia difensiva
La tesi sviluppata a difesa dell’imputato verte su di un fatto che è passato inosservato tanto al giudice di primo grado, che a quello del secondo. E cioè, NON E’ STATA considerata la “VIRTUALITA’” del luogo in cui si consumano i reati: e cioè su internet. Un mondo parallelo, virtuale ma, con effetti reali.
Ed invero, la difesa dell’imputato sosteneva che:
“quando l’insultato è online non vi è diffamazione.
Le argomentazioni sviluppate in sentenza sono molto tecniche, però si cercherà di rendere chiari i meccanismi legali soffermandoci sopratutto sulla tesi fattuale innanzi indicata.
Il primo motivo d’impugnazione – sulla validità delle prove
Molto astuta è stata l’eccezione riguardo il modo in cui si è contestata la validità delle prove del reato. In particolare dalla difesa dell’imputato è stato contestato che
“la sola stampa degli screenshot estrapolati dalla persona offesa e dal testimone di polizia giudiziaria non sarebbero sufficienti a provare che l’imputato abbia pubblicato i messaggi diffamatori”.
Al consulente tecnico dell’imputato l’incarico di analizzare il profilo dell’imputato e di un soggetto che aveva partecipato alla conversazione. Da detta analisi nulla era stato riscontrato, infatti, i controlli avevano dato esito negativo.
In particolare era emerso che nessuna chat, dal profilo dell’imputato era stata archiviata o cancellata. La persona offesa, dal canto suo, aveva sempre negato l’autorizzazione all’accesso al suo profilo, teso a verificare se vi fosse il post incriminato.
Diciamo subito, però, che non è questo che ha convinto i giudici ma, piuttosto un altro aspetto della vicenda.
Il secondo motivo d’impugnazione
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 594, 595 c.p. e artt. 192 e 187 c.p.p., oltre alla mancanza, alla contraddittorietà e alla manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione del fatto come diffamazione, piuttosto che come ingiuria.
Si ritiene indispensabile, per agevolare il lettore che nulla o poco sa di “legalese” che esiste il reato di ingiuria (previsto dall’art. 594 c.p.) e quello più grave di diffamazione (art. 595 c.p.).
Sicuramente ci si domanderà ma qual’è la differenza tra ingiuria e diffamazione?
La diffamazione, a differenza della ingiuria, scatta in assenza del destinatario delle offese ed in presenza di almeno altre due persone.
Con questi elementi, quindi, si iniziano ad intravedere, quali i risvolti giudiziari della vicenda in esame.
Il terzo motivo d’impugnazione
Infine, con il terzo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 595, 599 c.p. e artt. 192 e 187 c.p.p., oltre alla mancanza di contraddittorietà e alla manifesta illogicità della motivazione. Si legge infatti nel ricorso che l’imputato avrebbe agito in preda a uno stato d’ira determinato dal comportamento della persona offesa.
Questo motivo verrà assorbito da altro e quindi non di interesse.
Fondatezza del ricorso: se l’insultato è online, non c’è diffamazione.
Spieghiamo, dunque, il perché i giudici hanno ritenuto valide le motivazioni della difesa, ed in particolare il secondo motivo di impugnazione, ovvero, la circostanza della presenza online dell’insultato.
Sostanzialmente i giudici hanno valutato la sentenza d’appello carente per motivazione relativamente alla mancata qualificazione del fatto come ingiuria, invece che come diffamazione. Abbiamo chiarito prima, nella parte fattuale quale erano le circostanze del caso: l’insultato era online ed aveva ricevuto delle offese. Si comprende appieno, dunque, la esistenza della differenza tra i due reati.
Spiace ripetersi ma è fondamentale evidenziare che nel caso di specie, quindi, la persona offesa era “on-line” e partecipava alla discussione virtuale.
Differenza tecnica tra reato di ingiuria e diffamazione
A questo punto i giudici della Suprema Corte per validare l’accoglimento hanno richiamano un precedente molto importante, ovvero, la sentenza n. 13252 del 4 marzo 2021, che nell’interrogarsi sulla natura ingiuriosa o diffamatoria dell’invio di e-mail a più destinatari, tra cui anche l’offeso, ha schematizzato in modo interessante le situazioni concrete in relazione ai vari strumenti di comunicazione che possono dare luogo all’addebito ex art. 594 c.p., o ex art. 595 c.p..
Andiamo ora a riepilogare:
Se l’offesa è diretta ad una persona
• presente nella conversazione, è ingiuria anche se sono presenti altre persone
• distante, è ingiuria solamente se la comunicazione offensiva avviene solo tra autore e destinatario
Di contro, se la comunicazione a distanza
- è indirizzata ad altre persone all’offeso, si configura il reato di diffamazione
- se l’offesa riguardante un assente è comunicata ad almeno due persone (presenti o distanti), integra sempre la diffamazione.
E’ evidente che c’è da evidenziare cosa si intenda per contestuale presenza tra chi l’offesa la fa e chi la riceve, alla luce delle nuove tecnologie è compito arduo.
La presenza non deve essere nel medesimo luogo e nel medesimo momento. Le nuove tecnologie, permetto il verificarsi di situazioni sostanzialmente equiparabili. Si pensi ad esempio a situazioni di compresenza durante una telefonata c.d. “call conference”, audioconferenza, oppure ad una videoconferenza. Anche se materialmente i partecipanti non sono nello stesso posto, sono comunque tutti “presenti”.
LA massima della sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione nel caso in cui l’insultato è online
La precedente sentenza che i giudici di Cassazione hanno richiamato per risolvere il caso, statuisce che
“i numerosi applicativi attualmente in uso per la comunicazione tra persone fisicamente distanti non modificano, nella sostanza, la linea di discrimine tra le due figure come sopra tracciata, dovendo porsi solo una particolare attenzione alle caratteristiche specifiche del programma e alle funzioni utilizzate nel caso concreto”.
E’ noto a chi ne fa uso che molte applicazioni consentono agli utenti di avvalersi di strumenti tecnologici che facilitano la comunicazione tra due o più soggetti: messaggistica istantanea (scritta o vocale), videochiamata, chiamate cd. “VoIP” (conversazione telefonica effettuate sfruttando la connessione internet senza passare dalla linea analogica).
Inoltre, sono state sviluppate diverse piattaforme per convocare riunioni a distanza tra un numero, anche rilevante, di persone presenti virtualmente. Le medesime piattaforme permettono di scrivere, durante la riunione, messaggi diretti a tutti i partecipanti, ovvero a uno o ad alcuni di essi.
Per tale ragione il mero riferimento a una definizione generica (chat, call) o alla denominazione commerciale del programma è, di per sè, privo di significato e foriero di equivoci, laddove non accompagnato dalla indicazione delle caratteristiche precise dello strumento di comunicazione impiegato nel caso specifico”.
Quindi, secondo la Cassazione, per giungere ad una distinzione tra i due reati, quello di ingiuria ex art. 594 c.p. e quello di diffamazione (aggravata) 595 c.p.c. deve valutarsi la situazione di presenza, anche se virtuale, dell’offeso. Questo è chiaramente il dato da valutarsi. E lo si dovrà fare caso per caso.
Come è stato più volte ribadito, quindi, in questo caso è stato accertata la presenza online dell’insultato e quindi doveva rubricarsi il non il reato di diffamazione ma quello di ingiuria.
NOTA – Se l’insultato è online non è diffamazione aggravata
Alla luce di quanto fin qui narrato,
nelle ipotesi in cui l’offesa si consumi durante una riunione (a distanza), tra più persone contestualmente collegate, e vi è anche la partecipazione dell’offeso, ricorrerà (SEMPRE) l’ipotesi di ingiuria commessa alla presenza di più persone.
Nongià, dunque, il reato più grave di diffamazione.
Si tiene a precisare che l’ingiuria, originariamente prevista come reato dall’art. 594 del Codice penale, ha degli effetti sanzionatori “molto più leggeri”. Questo perchè il reato non prevede più la reclusione ma, (semplicemente) un illecito civile.
In parole povere, quindi, anziché il carcere, si dovrà pagare un danno all’offeso. Tecnicamente questo passaggio si definisce depenalizzazione di un reato.
Se invece vengono in rilievo delle comunicazioni scritte o vocali, indirizzate all’offeso e ad altre persone, non contestualmente presenti (sia con presenza virtuale o da remoto), ricorreranno i presupposti della diffamazione.
*Analisi della sentenza a cura
dell’Avv. Leonardo Andriulo
Managing Partner ANP Legal – avvocati di fiducia