Vi scrivo questa lettera per raccontarvi il vissuto di quest’ultimo anno della mia vita. State tranquilli, non cerco consensi, complimenti per come scrivo o cose così.
Il mio pensiero è rivolto a tutte quelle persone che come me, all’improvviso, si sono trovate l’esistenza propria e delle persone vicine dalla malattia.
Quasi per caso, a fine settembre 2018 mi è stato riscontrato un adenocarcinoma al quarto stadio con metastasi al fegato, voi pensate che fino a due giorni prima mi allenavo nella corsa sulle lunghe distanze…
Quel giorno mi sono sentito crollare il mondo addosso. Non sai cosa fare, come comportarti. Anzi, la prima cosa che fai è andare su internet, ci trascorri ore e ore. Chiami i medici che conosci per chiedere, per cercare di capire da dove iniziare e dove andare.
Non nascondo che da subito ho escluso, anche per essere coerente con le mie idee, un viaggio della speranza al nord.
Ho sempre ritenuto, infatti, che la mia Puglia abbia in campo sanitario delle eccellenze che nulla hanno da invidiare ai migliori ospedali del settentrione.
Ero indeciso de rivolgermi al Miulli di Acquaviva o al Policlinico di Bari.
Poi mi chiama un mio amico medico radiologo e mi dice di stare tranquillo, di farmi trovare all’indomani alle 15 in ospedale a Tricase. Gli do ascolto e prendo appuntamento con un giovane chirurgo oncologo.
Non vi nascondo che ero molto perplesso. Pensavo che sicuramente in Puglia ci fossero delle eccellenze, ma non immaginavo potessero “nascondersi” a Tricase. Ho chiamato diversi dottori salentini di mia conoscenza per chiedere un loro parere e tutti mi hanno rassicurato: “Vedrai, sei in ottime mani”.
In effetti, quel giovane onco-chirurgo mi ha fatto subito una bella impressione, infuso certezza e serenità: dobbiamo fare presto, iniziamo con l’asportazione del tumore al colon, poi faremo la chemioterapia per capire come comportarci col fegato.
Dopo l’intervento in laparoscopia, ho iniziato la chemio. Non vi nascondo che, dopo il primo “santo” (il chirurgo oncologo), ho incontrato il secondo santo, e cioè l’oncologo. Persone preparatissime sia sotto il profilo professionale che sotto quello umano. Non mi sono mai sentito da solo.
Dopo sei cicli di chemio, ho pregato intensamente il chirurgo di tentare una lobectomia epatica o quantomeno di effettuare una video-ispezione laparoscopica per verificare le condizioni del mio fegato.
Putroppo, però, non rimaneva fegato a sufficienza perché non rischiassi di andare in insufficienza epatica. Inoltre, per non farmi mancare nulla, anche la risonanza con mezzo di contrasto ha confermato ulteriormente che la chemioterapia non stava dando i frutti sperati.
Non mi vergogno a dire che in quell’istante mi sono sentito davvero perduto. Della serie che non sapevo più a quale santo votarmi. L’oncologo mi rincuorava, dicendomi di stare tranquillo perché ancora niente era perduto.
Ma io per due giorni non ho mangiato né dormito, non mi andava di parlare con nessuno. Ero solo dispiaciuto per il mio compagno di stanza che cercava in tutti i modi di starmi vicino.
All’inizio del terzo giorno, mentre mi facevo la barba, mi sono detto: «Non puoi mollare adesso, non è da te!». Così ho ripreso a studiare, ho cercato le “mie” terapie alternative, ecc.
Improvvisamente, mi si è accesa una lampadina. Fino a quel momento avevo sempre pensato alla chirurgia e all’oncologia. Da qualche anno a questa parte, però, si è diffusa in campo oncologico una nuova branca della medicina, e cioè la radiologia interventistica. Un lavoro di squadra tra oncologi e radiologi che, tramite i vasi sanguigni, cercano di raggiungere direttamente la sede della neoplasia con una chemio localizzata.
Il primo incontro non è stato del tutto piacevole. Mi hanno in qualche modo spiegato che ero un malato cronico con metastasi e che facilmente altre cellule tumorali avrebbero girato per il mio corpo. Insomma, bisognava cercare di cronicizzare per anni la malattia.
Potete ben capire cosa significhi sentirsi dire che ci sono dentro di te degli ospiti indesiderati e che non puoi fare altro che cercare di limitare il loro campo d’azione.
Non è facile accettare serenamente tutto ciò, ma poi capisci e cerchi di fare di necessità, virtù.
Ho deciso che i dolori, l’anestesia, la sala operatoria, l’intervento non devono in nessun modo modificare il mio modo di vivere. Tutto questo può durare un giorno, una settimana, un mese, ma poi ho ancora tantissime cose da fare: dedicarmi alla famiglia, tornare a correre, curare il giardino… Su questo mi devo concentrare.
Durante questo breve ma lunghissimo e durissimo periodo ho fatto una riflessione: arrivo a 58 anni e al traguardo della pensione, i miei figli ormai sono grandi, entro nella monotonia del rapporto coniugale, poi tutt’a un tratto arriva un serio problema di salute. Puoi comportarti in due modi: ti abbatti, ti lasci andare, accetti tutto passivamente; reagisci e torni a combattere, perché magari la vita ti sta offrendo una nuova possibilità.
Certamente non è un dono, è sicuramente un tunnel. Se uscirai da un lungo e tortuoso percorso, potrai apprezzare situazioni fino ad allora per te sconosciute perché mai prese in considerazione.
In quest’ottica, ho deciso di non penare alla morte e a ciò che potrà succedermi. Oggi ci sono, domani farò il possibile per esserci. Vedremo.
P.S.: Scrivo questa mia lettera in forma anonima e spero la divulghiate solo ed esclusivamente allo scopo di dare forza e coraggio a tutte quelle persone che hanno i miei stessi problemi ma non la mia stessa voglia o forza di combattere. Ricordiamoci che dobbiamo farlo per noi stessi, ma ancor più per chi ci è vicino, anche perché spesso possiamo essere proprio noi il sostegno dei nostri cari.