Lo sceneggiatore Gino Capone intervistato sul suo grande collega e amico Marcello Marchesi

Gino Capone

Qui di seguito un’intervista allo sceneggiatore Gino Capone, di Oria e tra gli ideatori del Torneo dei Rioni, riguardo il suo grande collega e amico Marcello Marchesi (curriculum in basso). L’intervista sarà pubblicata sul sito “Non solo Cinema” in concomitanza con l’uscita del numero 189 del quadrimestrale “Cabiria-Studi di Cinema”, su cui saranno pubblicati dei saggi sugli scritti inediti di Marcello Marchesi , quelli scritti con Metz e Palazio, quelli scritti con Gino Capone e altri sceneggiatori, e una sceneggiatura scritta con Cesare Zavattini.

Marcello Marchesi

Io e Marcello Marchesi. Intervista con Gino Capone

a cura di Rinaldo Vignati

Uno dei misteri del cinema italiano riguarda i motivi che hanno portato Marcello Marchesi, sceneggiatore di grande successo, ad abbandonare il cinema negli anni ‘70 (mentre il suo amico e collega Vittorio Metz continuava a gran ritmo a firmare nuove commedie).

Ne abbiamo parlato con Gino Capone, sceneggiatore di numerosi film di genere (soprattutto commedie), che nella prima metà di quel decennio frequentò Marchesi e scrisse con lui diversi soggetti rimasti inediti (oggi sono custoditi dall’Associazione Marcello Marchesi: su “Cabiria”, la rivista del Cinit, su cui a partire dal n. 189, usciranno dei saggi che li esaminano).

Quando ha conosciuto Marchesi?           

Ho conosciuto Marcello nel ’72, tra la primavera e l’estate. Cenammo in uno dei ristoranti che affacciano su piazza Navona, a Roma. A volere l’incontro era stato il produttore e attore Mauro Parenti. Per lui avevo già scritto due film [Fhenonemal e Zenabel, di Ruggero Deodato, ndr]. Non ricordo come avesse conosciuto Marchesi, ma stava progettando di realizzare un film scritto da lui e voleva che io collaborassi alla sceneggiatura. Doveva essere una sorta di satira sul Vaticano che, se non ricordo male, s’intitolava Le Tre dita (quelle benedicenti) del Potere. Credo che oltre al titolo e all’idea di farne una satira non ci fosse altro. Ne parlammo un po’ quella sera ma poi non se ne fece più nulla. Con Marcello però mi vidi ancora. Avevamo fraternizzato subito e, nonostante una rilevante differenza di età, continuammo a frequentarci.

E quando iniziaste a scrivere qualcosa assieme?

Al ritorno dalle vacanze ci rivedemmo e gli mostrai un Super8 che avevo girato in estate per il trastullo di amici e compaesani in Puglia. S’intitolava Cilindri e Scarponi ed era la storia di un ricco signore (il “cilindro”) e di un contadino (gli “scarponi”) che morivano e si ritrovavano, a sorpresa, in un aldilà completamente diverso da quello propagandato dalle fonti competenti. Era collocato in una cava di tufo, con un clown (Pagnotta) al posto di San Pietro; un Cristo, circondato dagli apostoli e incazzato nero con i preti, e un San Giuseppe con Signora sempre impegnati a far le prove per il presepe. Non s’istruivano giudizi di sorta, né individuali né universali, per cui non si comminavano castighi né si elargivano premi, di conseguenza niente Purgatorio e niente Inferno. C’erano solo tre Parche, che si limitavano a prendere atto dell’autocertificazione che le anime rilasciavano all’arrivo. Il contadino, però, chiede a Pagnotta di poter tornare giù dalla moglie e ottiene di incontrarla entrando nei suoi sogni. Ha così modo di constatare che moglie e figli hanno conservato i valori che lui aveva inculcato loro. Gli eredi del ricco signore, invece, liberatisi della sua presenza ingombrante, sperperano quanto lui aveva accumulato.

Avevo letto il soggetto proposto da Marcello a Celentano (mi ha consentito di leggerlo il figlio di Marchesi, Massimo) ma non sapevo che nascesse da un suo Super8. Esiste ancora questo filmino?

Certamente. Esiste e come.

E Marchesi che ne disse?

Marcello rimase entusiasta del filmino, anche, bontà sua, per come era girato, e mi disse che lo avrebbe proposto a Celentano. Poi mi disse che lo aveva raccontato a Gaber e poi… e poi passammo ad altro.

Cioè? A quali altri progetti vi dedicaste?

A La Donna Prete, un mio soggetto che avremmo dovuto sviluppare insieme. Questo mancò poco che lo realizzassimo, con Sofia Loren come protagonista e prodotto da Carlo Ponti che ce lo opzionò dandoci anche un assegno, che io conservo ancora (in fotocopia). Una delle battute più ricorrenti di Marcello era : Dio dacci un assegno della tua presenza. In quell’occasione Ponti ci riferì un episodio che la dice lunga sul mestiere dello sceneggiatore. Riguardava una sceneggiatura che Ponti aveva commissionato, non ricordo se a Benvenuti e De Bernardi o ad Age e Scarpelli, ma poco importa. Dopo aver ricevuto il copione, Ponti convoca i due sceneggiatori in ufficio. Dice che l’ha letto e che trova il primo tempo perfetto, mentre nel secondo sente che c’è qualcosa che non va. Cosa? Qualcosa! E invita i due a rimettere mano al copione. I due lo fanno e dopo dieci giorni gli rimandano la nuova versione con un’unica modifica. Ogni venti pagine ne hanno aggiunta una con su scritto: Ponti è uno stronzo. Dopo qualche giorno, come i due sceneggiatori avevano previsto, Ponti li chiama, soddisfatto, e gli dice che il copione è perfetto. Ovviamente, tempo dopo i due gli dissero la verità e Ponti, che era uomo di mondo tanto da raccontare l’episodio senza problemi, si fece una gran risata.

Ne ho letti diversi di episodi simili a questo…

Gli sceneggiatori sono autentici figli di gran puttana. Marchesi e Metz andavano agli incontri con il produttore di turno provvisti ciascuno di un blocco-notes, spacciato come ricco di appunti ma in realtà in bianco, che sfogliavano improvvisando la storia richiesta, ma modificandola al momento a seconda dell’espressione o della reazione del produttore a questo o a quello snodo narrativo. Se sobbalzava quando, per esempio, raccontavano che ad un certo punto della storia il protagonista moriva, ecco che inventavano al momento la trovata per farlo resuscitare nella scena successiva. E così uscivano dall’ufficio del produttore con in mano il canovaccio del film, già approvato, e in tasca l’assegno per completarlo. Dio dacci un assegno della tua presenza.

Tornando a La Donna Prete, come andò?

Ponti ci disse che Sofia voleva una regia francese per cui bisognava cercare un regista d’oltralpe. Non so quanto fu fatto per trovarlo ma su questa ricerca il progetto si arenò. Lo ribattezzammo La Ragazza Prete (sottotitolo Francesca) per proporlo a un’attrice più giovane (la Melato?), ma neanche questo sortì alcun effetto. Credo che nello stesso periodo, a cavallo tra il ’74 e il ’75, scrivemmo insieme Quattro Donne. L’intento era quello di coinvolgere quattro “grosse” attrici, ma neanche questo diventò mai una sceneggiatura. Intanto con Marcello continuavamo a frequentarci anche con le rispettive famiglie, la mia certificata e già con prole, la sua ancora in attesa di un timbro che la certificasse e di un erede. E così nella primavera del ’75 mi raggiunse in Puglia con Enrica, la sua deliziosa promessa sposa, dove io, annualmente, realizzavo nel mio antico paese d’origine (Oria) una rievocazione storica, da me ideata, imperniata su Federico II e i quattro rioni cittadini. Si tiene ancora oggi con successo, ma in agosto e diretta da altri. Nello stesso anno sviluppammo a livello di trattamento un soggetto di Marcello, bellissimo, Il Leone e la Gazzella, che aveva qualcosa di autobiografico. Era la storia di un uomo molto maturo, e anche un po’ superficiale, che, non credendo all’amore assoluto che gli dichiarava una giovanissima ragazza, incontrata casualmente e poi portata in casa, pensa che sia la Morte, presentatasi sotto mentite spoglie, e la uccide. Volevamo come interprete Tognazzi, o in seconda battuta Mastroianni, ma anche questo progetto non vide la luce, come gli altri.

Ma a che stadio arrivarono questi progetti? Ci furono dei tentativi di realizzarli o rimasero solo sulla carta?

È incredibile. Escluso La Donna Prete, non ricordo se gli altri li proponemmo a qualcuno o meno. Mi sa che ci accontentavamo di progettarli e basta. Viene anche da chiedersi quale fosse la molla inconscia, o conscia, che spingeva un “numero uno” come Marcello, grande quanto mio padre, ad interagire con me, giovane neo sceneggiatore con un solo film di successo, e a voler collaborare allo sviluppo dei miei lavori. A volte mi confidava che gli ero piaciuto subito come sceneggiatore per la capacità di riflettere, di ponderare. Per questo gli piacevano le mie storie.

Ci sono altri lavori?

Sempre nel ‘75 gli proposi un altro mio soggetto, Il Brutto Anatroccolo. Era la storia di un uomo brutto, sfigato ed emarginato, clown in un circo, che però aveva tali e tante doti umane da trasformarsi in un cigno nell’incontro con una bellissima funambola innamoratasi perdutamente di lui. L’avevo scritto pensando di utilizzare Alvaro Vitali, affidandogli un ruolo un po’ più impegnato dei suoi soliti. Lo ribattezzammo Con Quella Faccia perché Marcello, sempre con il proposito di lanciare in A un attore di B, ne parlò a Franco Franchi, che rimase folgorato dall’idea ma contropropose di trasformarlo in un testo teatrale per Il Sistina, e con Gina Lollobrigida come sua partner. Sembrava fatta, invece si arenò anche quel progetto, mi pare per il rifiuto della Lollobrigida di fare coppia con Franco Franchi. Purtroppo, il brutto anatroccolo diventa cigno solo nelle favole.

L’anno successivo, gli proposi un’altra storia, sempre da sceneggiare insieme. S’intitolava Violino Tzigano ed era la storia di una zingara, una ragazza Rom (sempre la Melato) che entrava in conflitto con i suoi pur di integrarsi e diventare “gagè”, termine dispregiativo con cui i Rom definiscono chi non è come loro. Ma ricordo che Marcello mi venne a trovare a casa, e mi disse che, causa impegni televisivi pressanti, non poteva collaborare allo sviluppo di quel progetto.

Da allora mi pare che non abbiate più scritto nulla assieme…

Successivamente, lui sempre più preso dagli impegni televisivi, io da un genere di film (il poliziesco) che avevo accettato di cominciare a frequentare per motivi puramente alimentari, non progettammo più nessun lavoro da fare insieme, ma continuammo a frequentarci come amici. Presenziai al suo matrimonio con Enrica (grande abbuffata all’Antica pesa, l’ancora mitico ristorante romano in via Garibaldi) e ho assistito anche al suo momento forse più bello: quando è diventato padre del piccolo Massimo. 

Mi pare che il vostro non fosse un legame solo professionale ma anche umano…

Era un grande. Ricordo come fosse ieri la sera che andammo a vedere uno spettacolo di cabaret diretto da Eros Macchi, un regista televisivo, e interpretato da Lucretia Love, che ci aveva invitati. Si addormentò, a ragion veduta, alle prime battute e si risvegliò all’ultima ma subito dopo, quando nei camerini, protagonista e regista gli chiesero cosa ne pensasse, parlò per mezz’ora dello spettacolo facendo un’analisi dettagliata e dando anche dei suggerimenti. Davvero grande. Posso dirlo con cognizione di causa. In quei pochi anni che ci siamo frequentati ho avuto modo di apprezzare non solo l’artista (indiscusso) ma soprattutto l’uomo (immenso). Era intelligenza pura e gli riusciva facile un’impresa apparentemente impossibile. Impregnava le sue battute di grande cinismo senza essere cinico, a differenza di Metz, suo co-sceneggiatore storico. Mi diceva che glielo ricordavo. Non per il cinismo, dote carente anche in me, ma perché quando lavoravamo, causa i perfidi capricci del mio nervo sciatico, ero costretto a prendermi tra le mani il ginocchio per sollevare l’anca dalla sedia e lenire il dolore. Espediente empirico usato anche da Metz, afflitto come me da un nervo sciatico capriccioso, quando lui e Marcello vivevano chiusi in albergo a scrivere contemporaneamente svariati film.

Questo del cinismo mi sembra un punto chiave. Gianni Turchetta, un critico letterario che ha studiato i testi di Marchesi, parlava di “sorprendente, esibita crudeltà”. Filippo La Porta, parlava di “smascheramento del buonismo (anche se allora non si chiamava così)”. Molte delle battute di Marchesi stanno sul crinale tra cinismo e satira del cinismo: non si sa mai come vadano prese. Ed è questo che le rende irresistibili…

Ritornando al percorso di Marchesi, la domanda a cui non so darmi una risposta precisa è perché dalla metà degli anni ’60 non firma più film che arrivano sugli schermi (il suo ultimo titolo è La più bella coppia del mondo, 1967)…

Con Marcello, nottetempo, ci attardavamo spesso a chiacchierare, scambiandoci anche confidenze intime. In alcune di queste capitò anche che Marcello esternasse punte di rammarico legate al suo percorso professionale e umano, impensabili in un uomo di indiscutibile successo come lui. Marcello vendette l’anima (intelletto e creatività) al commercio e alla Dea Pubblicità che gli hanno dato grande successo e compensi stratosferici come creatore di slogan diventati pietre miliari. Ma la pubblicità è un altro mondo, lontano anni luce dal pianeta cinema, e Marcello ne ha sempre sofferto l’astinenza. A un certo punto lascia Milano, la pubblicità, i contratti milionari, e se ne torna a Roma esternando ne Il Malloppo tutto il suo malessere per il vissuto da cui è appena fuggito.

Il malloppo è probabilmente il suo capolavoro. L’accumulo di battute, tra il geniale e il triviale, si trasforma in un libro quasi sperimentale…

È un libro straordinario, in cui Marcello immagina di essere in ospedale afflitto da un “malloppo” costituito dalle tante, tantissime parole che ha dovuto violentare, distorcere, vivisezionare, per asservirle ai tassativi bisogni di estrema sintesi degli slogan. Parole che ora si ribellano e scalciano in maniera violenta dentro di lui. Con Il Malloppo si era sfogato ma non aveva detto tutto. Il suo vero rimpianto, ciò che più gli stava sullo stomaco me lo confidò quasi di sfuggita, sempre durante uno di quei flash notturni. Si rammaricava che il suo percorso artistico, sebbene costellato di successi su successi, fosse stato condizionato in negativo dalla facilità con cui gli venivano le battute, gli aforismi, le gag. Una prerogativa che, a suo dire, gli aveva interdetto la possibilità di approfondire temi, stati d’animo, psicologie, condannandolo a una produzione di opere solo ed esclusivamente di facile consumo. Era un’ammissione forte che solo un grande può arrivare a fare. E lui, lo ripeto, era un grande. Un grande amico, un grande affetto, che è venuto a mancare troppo presto, che tutt’ora mi manca e mi mancherà sempre.

CURRICULUM VITAE Rinaldo Vignati

Insegna Scienza politica all’Università di Modena e Reggio Emilia, svolge attività di ricerca presso l’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna ed è membro del Comitato editoriale della rivista “Polis”. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Casting light on the black hole of the amendatory process in Italy nel volume «South European Society & Politics», 2008, e il capitolo La Ricerca Quantitativa nel volume “Customer Satisfaction”.

Marcello Marchesi. Giornalista, sceneggiatore (insieme all’inseparabile Metz, ha scritto quasi tutti i film di Totò), regista cinematografico e teatrale, paroliere e comico durante le prime, storiche esperienze televisive nazionali (prima fra tutte Il Signore di Mezza’età). Intellettuale curioso, secondo molti il primo, vero esemplare italiano di moderno copywriter, autore di oltre 4.000 caroselli e slogan pubblicitari, alcuni dei quali rimasti nella storia della televisione nazionale (da Basta la Parola, per il lassativo Falqui, a Contro il logorio della vita moderna per il Cinar, da Non è vero che tutto fra brodo per il dado Lombardi al Brandy che crea un’atmosfera per Vecchia Romagna ). Come talent scout ha scoperto e lanciato Walter Chiari, Mike Bongiorno, Gino Bramieri, Mario Riva, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Gianni Morandi e Age e Scarpelli. Versato poeta, ha scritto anche diversi romanzi, rivelandosi come una delle figure d‘itellettuale più avanzate del novecento, eclettico e curioso dei più disparati saperi. Ha coniato epiteti celeberrimi per personaggi famosi (Chi non muore si risiede per Giulio Andreotti; Il Petto Atlantico per Gina Lollobrigida , il Dottor Divago per Aldo Moro , l’Acuto Ottuso per Claudio Villa e L’Ape Regia per Luchino Visconti ) e lasciato immemorabili aforismi (Dio dammi un assegno della tua presenza , e Siamo nati per soffrire, e ci stiamo riuscendo).Di sé diceva: HO UNA CARRIERA COSÌ LUNGA DA FAR VENIRE IL SOSPETTO CHE IN REALTÀ IO SIA MIO FIGLIO.

 

 

 

 

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