L’operaio è ammalato, ma nessuno gli fa il certificato: non tocca ai medici di famiglia, tocca direttamente agli specialisti. Così, almeno, hanno detto i primi. I secondi, però, nella maggior parte dei casi non sono preparati per trasmettere telematicamente la documentazione a Inps e datore. Così, alla fine, il paziente ha dovuto fare da sé. Una situazione kafkiana, con annesso scaricabarile, che adesso è capitata a un oritano e che domani potrebbe capitare a chiunque.
Ma procediamo con ordine.
Il lavoratore è da tempo alle prese con una malattia che, di tanto in tanto, lo costringe a riposare. Sarebbe dovuto tornare alle sue occupazioni oggi stesso, ma non si è ancora ripreso e ha quindi deciso di sostenere un’altra visita per ottenere altri giorni di pausa dopo quelli già goduti nell’ultimo periodo.
Come tutte le altre volte, qualche giorno fa si presenta dal suo medico curante, gli espone i suoi problemi e gli chiede il solito certificato. A differenza che nelle precedenti occasioni, però, stavolta si sente rispondere “picche”. «Noi medici di famiglia non possiamo più emettere questo tipo di certificati, che spettano direttamente agli specialisti», gli riferisce il dottore.
Una novità assoluta per lui. Così, chiede un appuntamento allo specialista che, dopo averlo visitato ed essersi pagato, effettivamente gli assegna con un certificato “bianco” 15 giorni di prognosi. Il paziente chiede quindi allo specialista d’inviare la documentazione all’istituto di previdenza e all’impresa per cui lavora. Ma il suo interlocutore cade dalle nuvole e risponde: «Non ho purtroppo le credenziali per fare una cosa del genere».
L’operaio torna quindi dal suo medico di famiglia e gli spiega i nuovi risvolti, ma quello fa spallucce e dice: «Non posso farci niente, mi dispiace». Comprensibilmente innervosito e un po’ in ansia, il lavoratore consulta altri dottori e più o meno tutti gli confermano quello che aveva già appreso sulla sua stessa pelle: i medici di famiglia non dovrebbero, ma potrebbero; i medici specialisti dovrebbero, ma non potrebbero (in quanto non accreditati).
Un caos che deriverebbe da una circolare Inps datata addirittura 1996 (numero 99), fondata ovviamente sulla normativa di riferimento, ma che fino a oggi pare non sia stata recepita ovunque. A Oria, invece, da quest’anno viene osservata alla lettera, probabilmente anche come conseguenza indiretta delle recenti tensioni tra i medici di famiglia e il governo nazionale. A Francavilla, per esempio, sembra invece che questo non avvenga.
Il rischio di dover comunque tornare al lavoro, nonostante le sue precarie condizioni di salute, incombe concretamente e a quel punto l’operaio decide di fare qualche ricerca per superare da solo l’imbarazzo degli altri. Chiama di qua, chiama di là, alla fine la risposta ai suoi perché la trova sul Web. In un’altra parte d’Italia era già accaduta una cosa simile e un medico aveva rivolto un quesito all’Inps per capire come comportarsi. La stessa, identica situazione.
In sostanza, malgrado la malattia, dopo essere stato sballottato di qua e di là, il lavoratore ha dovuto fare da sé, inviando con raccomandata A/R il certificato “bianco” tanto all’Inps quanto al datore. Una soluzione-tampone in attesa che sia definitivamente risolto il rimpallo di competenze tra medici curanti e specialisti. Una soluzione-tampone che si spera sia valida, ma che presenta anche le sue controindicazioni: a parte le spese per le spedizioni a carico del paziente, con la trasmissione postale di copia del certificato, il datore può venire a conoscenza della patologia del dipendente (a meno che la diagnosi non venga coperta mentre si fotocopia il documento). E, si sa, lo stato di salute è un dato sensibile e, come tale, richiede un rispetto della privacy molto stringente.
Insomma, tutto è bene quel che finisce bene ma questa è, a ben guardare, la più classica delle storie assurdo-burocratiche all’italiana.