La banca aveva prelevato, per circa 15 anni, dal suo conto corrente somme che mai e poi mai avrebbe dovuto sottrargli. Un noto imprenditore di Oria, insospettito dall’ennesimo ammanco per costi di cui non era a conoscenza, ha deciso di fare chiarezza e si è rivolto al suo avvocato di fiducia, Giuseppe D’Ippolito del foro di Taranto, per il tramite del quale ha intentato un’azione di ripetizione d’indebito. Dopo aver chiesto una consulenza tecnica di parte, l’avvocato ha chiesto all’istituto di credito una somma di 100mila euro.
Il giudice Luca Notarangelo del Tribunale di Brindisi ha a propria volta disposto una consulenza tecnica d’ufficio che ha in larga parte combaciato con quella di parte. La banca a quel punto, probabilmente vistasi alle strette e per non andare incontro a una sentenza di condanna che ne avrebbe pregiudicato l’immagine, ha optato per una composizione bonaria della lite e, di fatto, è scesa a patti con il suo cliente proponendo all’avvocato una cifra a saldo e stralcio pari a 40mila euro.
Cifra, questa, che corrisponde ovviamente solo a una parte del totale che, nel corso degli anni, era stato illegittimamente sottratto al correntista a titolo di competenze, commissioni di massimo scoperto e interessi anatocistici non pattuiti.
Il punto fondamentale è, in estrema sintesi, proprio quest’ultimo: «L’assenza di patti tra istituto di credito e cliente – spiega l’avvocato D’Ippolito – con quest’ultimo che non era stato adeguatamente informato né aveva sottoscritto, e quindi accettato, quei costi aggiuntivi rispetto a quelli ordinari derivanti dalla semplice tenuta del conto».
In buona sostanza, non era stata osservata alla lettera – come implicitamente ammesso dal convenuto, che ha deciso di chiudere la questione con una transazione – la normativa sulla trasparenza bancaria.
