Sanità: 25 ospedali a rischio chiusura in Puglia, salvo quello di Francavilla

ospedale francavilla camberlingo

Sarebbero 25 gli ospedali a rischio chiusura in tutta la Puglia. Dopo le dichiarazioni del governatore Michele Emiliano, che si è detto disposto ad accettare l’impopolarità pur di non dover aumentare le tasse, è ufficialmente partito il toto-tagli, ossia: quali sono i presìdi a rischio soppressione?

Al momento circolano solo ipotesi, posto che di “intoccabili” (per affluenza e servizi) ce ne sono soltanto dieci: Policlinico di Bari, Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, Ospedali Riuniti di Foggia, Miulli di Acquaviva, Santissima Annunziata di Taranto, Vito Fazzi di Lecce, Perrino di Brindisi, Panìco di Tricase, Di Venere-Triggiano-Rutigliano, San Severo-Torremaggiore-San Marco. Questi, sempre a dire del presidente pugliese, fornirebbero da soli più del 55 per cento delle prestazioni sanitarie nell’intera regione.

Sugli altri non ci sono certezze, solo dubbi: Fasano (72 posti letto), Ostuni (102) e forse San Pietro Vernotico sarebbero i maggiori indiziati in provincia di Brindisi, Galatina e Copertino nel Leccese, Grottaglie nel Tarantino, Terlizzi (77), Corato (96) e forse Molfetta in provincia di Bari. Ma dovrebbe essere quello di Foggia il territorio più penalizzato, giacché conta 4,2 posti letto ogni mille abitanti, il dato più alto di tutti: in pericolo Manfredonia. Nella Bat, poi, ci sono ospedali che hanno gli stessi reparti e distano poco tra loro: Bisceglie, Canosa di Puglia e Andria, con quest’ultima realtà favorita rispetto alle altre due. Simile problema a Lecce con i “gemelli” Casarano e Gallipoli.

Salvo, ma mai dire mai, il Dario Camberlingo di Francavilla Fontana, del cui ridimensionamento si era in passato pure parlato.

L’eliminazione dei nosocomi secondari porterà – almeno questa è la promessa – al potenziamento di quelli principali, che oltre a un risparmio sulla spesa pubblica dovrebbero quindi offrire servizi migliori grazie a una potenziale maggiore efficienza. Il percorso, sempre se sarà avviato, si preannuncia comunque lungo e tortuoso: si sa, le comunità locali sono notoriamente restie a privarsi delle strutture ospedaliere sotto casa; inoltre, come potrà reagire quel personale – medico e infermieristico – che nei piccoli centri oggi occupa ruoli di responsabilità? E poi c’è la politica, storicamente molto legata alla sanità sia in termini elettoralistici che gestionali.

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