Hanno prima patteggiato, in qualche modo ammettendo le proprie responsabilità. Dopo, però, hanno presentato ricorso in Cassazione – unico strumento concesso a chi patteggia – chiedendo di essere assolti con formula piena o di essere comunque assolti in un modo qualsiasi. Strategie e prassi giudiziarie, certamente. Ma se a farlo sono i proprietari del castello di Oria – tuttora off-limits, chiuso a chiunque – la cosa non può che essere più interessante del solito.
Giuseppe Romanin (68 anni) e Isabella Caliandro (67), condannati in primo grado a un anno e a un anno e 20 giorni di reclusione (con sospensione condizionale della pena), continuano a invocare giustizia e lo scorso 6 ottobre, per il tramite del loro difensore Pasquale Annicchiarico, hanno depositato presso la cancelleria della Suprema Corte l’ennesimo tentativo di uscirsene immacolati dal procedimento che li ha per protagonisti a seguito degli abusi commessi durante il restauro del monumento-simbolo della città. Reati, quelli a loro contestati, per i quali sono tuttora sotto processo altre persone tra funzionari della Soprintendenza, tecnici anche comunali e rappresentanti delle imprese esecutrici dei lavori.
Se si tratti soltanto di prendere tempo, non è dato sapere. Sta di fatto che il legale di fiducia ha chiesto in poche righe l’annullamento della sentenza emessa, il 29 settembre 2015, dal gip del Tribunale di Brindisi Maurizio Saso dietro richiesta delle parti: il pm e gli stessi Giuseppe Romanin e Isabella Caliandro.
L’interessamento degli ermellini sarebbe, a dire dell’avvocato e degli imputati, giustificato dal fatto che già in precedenza sarebbero esistiti i presupposti per il proscioglimento dei coniugi proprietari del castello, ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale: «non risultando, agli atti, elementi a carico dell’istante», si legge, tra le altre cose. Nell’ambito delle ipotesi cui si riferisce la norma in questione figurerebbe poi anche la prescrizione. Nel motivare la sentenza di applicazione della pena su richiesta, il giudice ordinava peraltro «la demolizione delle opere abusive indicate in rubrica e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi a spese degli imputati, ove le opere non siano suscettibili di sanatoria».
In tutto questo, il Comune di Oria, che pure si era costituito parte civile nell’udienza del 29 settembre, dovrà accontentarsi – al momento – del pagamento delle spese processuali da parte dei Romanin-Caliandro, fissate in 2mila euro «oltre al rimborso spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge». Si prospetta però in futuro un’azione civile per rivendicare il risarcimento danni.