Si sa che nella Chiesa i giochi di potere sono all’ordine del giorno, ma si sa anche che i moti di dissenso spesso soffocano nel silenzio, nel segreto. Non così ai tempi in cui don Barsanofio Vecchio (8 aprile 1943 – 14 ottobre 2015), insieme con altri sacerdoti e membri laici della Diocesi di Oria, decise di pubblicare un numero unico dal titolo già di per sé significativo: “La verità”. Quattro pagine – datate primavera 1979 – dalle quali, come di rado accade e soprattutto accadeva, i parroci criticavano apertamente la discutibile “gestione” – è scritto proprio così – dell’ex vescovo Alberico Semeraro (1 maggio 1947 – 17 marzo 1978).
Nei suoi 31 anni in Curia, Semeraro pare avesse costruito un sistema che ai più non piaceva, ma che tutti erano stati costretti ad accettare. Ciò, perché Semeraro – citando testualmente – “godeva di molti appoggi”. Come la benevolenza di preti, colleghi vescovi e persino cardinali ai quali girava – a parere di chi scrisse quell’opuscolo – le offerte che i devoti dei Santi Medici lasciavano a celebrare. Appoggi, ma anche notevoli disponibilità economiche.
Disponibilità con le quali acquistava proprietà private a titolo personale e che rimpolpava cedendo beni della Diocesi. Tra i motivi di lamentela, per esempio, figuravano: la cessione dell’area di servizio “Fina” del Santuario di San Cosimo alla Macchia; il fitto per cinque anni dell’area mercatale; il fitto per sette anni, alla cifra di otto milioni di lire, del box adibito alla vendita di candele che si trovava all’ingresso del Santuario; la vendita della falegnameria alle spalle del Santuario.
«Per noi, stare zitti – spiegavano questi preti-coraggio con a capo proprio don Barsanofio – in questo caso, sarebbe paura e complicità, perché qui è in ballo non la persona, ma la “gestione” Semeraro, mai condivisa dal Clero, mai seriamente ostacolata».
Si faceva cenno, nell’editoriale di apertura dello stampato, anche ai rapporti privilegiati che monsignor Semeraro aveva instaurato con un gruppo di “signorine-religiose” guidate dalla madre superiora suor Filomena Gallo. Non a caso, proprio il vescovo di Oria fondò all’epoca anche l’Istituto delle Oblate di Nazareth con a capo proprio madre Filomena.
«Con gli appoggi sia di prelati di Curia, sia di uomini di partito, e con l’amministrazione della “provvida” Suor Filomena Gallo, l’episcopato Semeraro, durato per trent’anni, ha potuto creare e gestire in proprio le opere del Santuario di San Cosimo alla Macchia», si leggeva ancora nella prima facciata del numero unico.
E poi un altro titolo interno era questo: «Una storia di opere… pubbliche a beneficio privato di … Alberico Semeraro ex vescovo di Oria»
Nell’articolo, tra le altre cose, era scritto: «Per un vescovo la tentazione di scambiare la cosa pubblica per cosa privata è ancora maggiore perché si può fare forte del detto: “Chi serve l’altare si nutre dell’altare”, quasi a dire: chi serve la Diocesi si nutre della Diocesi. Per Mons. Alberico Semeraro, già Vescovo titolare di Oria, si è verificato questo: ha servito il Santuario di S. Cosimo alla Macchia e, non solo si è nutrito, ma se ne è quasi impossessato per sé ed eredi».
E inoltre: «Cos’era S. Cosimo tanti anni fa lo si può leggere nella storia del Santuario; cosa doveva diventare lo si può leggere su questo foglio dalle stesse dichiarazioni pubblicate da S.E. Mons. Alberico Semeraro negli Atti Ufficiali della Curia di Oria; cosa è diventato (proprietà quasi esclusiva di Alberico Semeraro) non è stato mai detto né al Clero né al popolo».
Ma, in via ufficiale, come l’allora presule descriveva il Santuario di San Cosimo? Così: «Ai sofferenti, ai malati, agli assetati di Dio, agli affamati di pace e di quiete, ai profughi di un mondo senza amore e senza tregua, il Santuario stende le sue braccia scarne, trafitte, ma piene d’amore, come quelle del suo Signore crocifisso. Cos’è, infatti, oggi,il Santuario se è cresciuto e può accogliere chi vi arriva, ciò è dovuto: a) al lavoro dei più poveri, i disoccupati accolti nei cantieri di lavoro: con questi, infatti, si sono eseguite buona parte delle costruzioni realizzate; b) alle offerte dei più poveri, i sofferenti che han rinunciato forse a qualcosa di necessario o caro per esprimere la loro devozione; c) ai devoti dei SS. Medici, ai benefattori, amici, simpatizzanti che con il loro appoggio, con la cordiale simpatia, con la buona propaganda, con le offerte… contribuiscono a rendere il Santuario stesso un centro di attrazione per la vita di grazia ed una fonte di bene per tutti i bisognosi. Con la Casa del Pellegrino, il Parco, il Ristorante, il Bar, i Campi da gioco per piccoli e grandi si vuol fare del Santuario un’oasi di pace. (Bollettino S. Cosimo alla Macchia, aprile 1958)».
E cos’era diventato, invece, Il Santuario per gli autori del foglio “La Verità”?
«A chi si avvicina al Santuario di S. Cosimo alla Macchia dalle varie strade provinciali si presenta un complesso vario di opere che, a prima vista, fanno ritenere il Santuario “funzionale”, “curato”, a beneficio dei pellegrini, dei devoti. Purtroppo non è così. Su metà giardino zoologico, sulla falegnameria, sul mercato-oggetti, sul bar-ristorante, sul locale negozio-ricordi, sui locali sovrastanti, residenza del vescovo Alberico e delle sue suore, sulle ampie aree destinate a parcheggi per macchine e per pullman, sulla zona in cui trovasi costruito l’altare all’esterno del Santuario, sui due colonnati che abbracciano la Chiesa-santuario, sul negozio-candele, sull’area di servizio di benzina “Fina” e sulle abitazioni ad essa annesse si potrebbe appendere un cartello con su scritto: “PROPRIETA’ PRIVATA DI MONS. ALBERICO SEMERARO». In più: «[…] al momento del passaggio Semeraro a quella De Giorgi (Salvatore De Giorgi, successore di Semeraro, 17 marzo 1978 – 4 aprile 1981) non c’erano registri, ma solo resoconti generici degli ultimi cinque anni, senza “pezze d’appoggio”, e perciò senza alcun valore probativo. In pratica chi ha amministrato il Santuario è stato il gruppo di suore-signorine (di solo diritto diocesano dal 31-7-1974). Anzi è radicata la convinzione, da un nostro sondaggio, che il Santuario fosse diventato la fonte primaria di reddito per tutte le opere di detta fondazione. […] Chi sapeva e non ha fatto nulla? […] Quali eredi godranno di tanto frutto?».
«Sappiamo tutti, purtroppo, che non è l’unica situazione anomala. C’è anche MONTALBANO», concludeva il pezzo.
Ma sullo stesso numero unico ce n’era un altro riferito proprio a Montalbano: «Annuncio economico – Montalbano in Oria “offresi al miglior offerente”», il titolo.
«A furia di offerte e controfferte – si leggeva all’interno – anche il complesso di opere sito in oria denominato Montalbano, di cui risulta proprietario mons. Alberico Semeraro, è in vendita. Già la stampa – vedi ad es. “La Gazzetta del Mezzogiorno” – parlò di una possibile vendita dell’immobile a favore dell’Ente Provincia di Brindisi. Furono fatti dei passi perché tale vendita fosse bloccata. Poi Mons. Semeraro promise al Vescovo Ausiliare Mons. De Giorgi e ai suoi Sacerdoti che nella sua qualità di vescovo-proprietario di Montalbano avrebbe donato l’immobile al Seminario diocesano, invece, con tortuosi giri giuridici, non avendo perfezionato l’atto di donazione con l’accettazione nella sua qualità di Rettore del Seminario, Mons. Semeraro restò di fatto vecovo-proprietario. Montalbano, frutto tra l’altro di Cantieri-Scuola, era destinato a essere la “Casa del Clero”. Lo stesso Alberico ebbe a dire in una riunione assembleare del Clero che Pio XII gli aveva dato, come contributo per tale opera, la somma di lire cinque milioni. Ora, proprietario di tale opera risulta essere Mons. Semeraro. E adesso non la… venderà più, la… offrirà (a prezzo da contrattare) ai Carmelitani Scalzi di Napoli. E i carmelitani sembrano ben intenzionati a… comprare tale offerta di Mons. Alberico».
La storia narra che poi Montalbano fu acquistato dal Comune di Oria e che di San Cosimo si occupò a suo modo, anche allora non senza polemiche, un altro vescovo Semeraro (Marcello, 25 luglio 1998 – 1 ottobre 2004, oggi presule di Albano Laziale)
Questo e altro ancora conteneva “La Verità”, ossia il grido d’allarme di un gruppo di sacerdoti impavidi (oltre a don Barsanofio, tra gli altri, don Rocco Leo, don Franco Candita, don Giovanni Turrisi) in aperto contrasto con un’opera, quella di monsignor Semeraro, che a loro dire di pastorale aveva avuto ben poco e d’imprenditoriale anche troppo. Non che quella sortita abbia poi prodotto chissà qualche conseguenza o risultato, se non al limite quello di smuovere le coscienze della gente. Che forse era in fondo la cosa più importante.
Insomma, quella volta – anche grazie alla risolutezza dell’allora rettore di San Cosimo, l’allora giovane don Barsanofio – i malumori non restarono strozzati in gola e alcune presunte trame nascoste furono raccontate proprio come suggeriva Matteo nel suo Vangelo (10.26), non a caso citato proprio sotto la testata di quel memorabile e numero unico: «Non li temete dunque, poiché non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato».