Come ogni anno da secoli a questa parte, si è rinnovato anche ieri a Erchie l’appuntamento con la fede e la tradizione in onore di san Giuseppe e ovviamente con le immancabili “mattre” disposte in centro attorno al santuario di santa Lucia, dov’è custodita la statua del “festeggiato”: un tempo, era questa l’occasione nella quale i benestanti del paese offrivano da mangiare ai meno abbienti, che si accalcavano nei pressi delle tavolate, ricche di nove o 13 pietanze tipiche della tradizione (dai “cirici e tria (tagliatelle caserecce)”, al baccalà,, ai cavolfiori fritti, al pesce fritto, agli “ampasciuni” fritti e al sugo, alla “tria” col miele per dolce al posto delle zeppole, alla frutta secca in quantità).
Oggi, al rito religioso e caritatevole si è aggiunto quello folkloristico, capace di attirare nel paesino di neppure diecimila anime migliaia e migliaia di persone tra fedeli, turisti e semplici curiosi.
Una grande festa di popolo – di quelle che man mano altrove stanno svanendo o sono svanite – capace di riempire le vie del centro di gente e di colori come di rado avviene nella quotidianità.
Oltre alle “mattre” (dal nome della casseruola in legno nella quale si lavora l’impasto per preparare il pane) – allestite perlopiù da parrocchie, associazioni e scuole del posto, autentici custodi della storia – non sono mancati gli uccellini, anch’essi un classico del 19 marzo, impastati con acqua e farina che simboleggiano la pace e sono di buon auspicio: in antichità, quando sul paese stava per abbattersi un temporale, era consuetudine sbriciolare questo simbolo e spargerlo ai quattro venti per scongiurare le peggiori conseguenze della
calamità naturale.
Accanto al cibo, si diceva, quel senso profondo di religiosità sotteso alla festività: come sempre, a mezzogiorno in punto la statua di san Giuseppe è uscita in processione dalla chiesa, preceduta dai “fratelli” dell’Arciconfraternita dell’Immacolata e dal parroco che, durante il percorso, ha benedetto, una ad una, le varie “mattre”. Da qualche anno a questa parte, anche in considerazione della portata che ha assunto l’evento, è il vescovo della Diocesi di Oria a impartire la benedizioni: senza questa sorta di via libera, nessuno si azzarda a toccare le vivande.
Così è stato anche questa volta: prima dell’ideale “via libera” di monsignor Vincenzo Pisanello, nessun assalto alla diligenza. Dopo, invece, sì. Ma, a differenza che in un passato remoto, in forme civili e senza sgomitare. Anche se, alla fine, i piatti ne sono usciti lo stesso pulitissimi. Come peraltro era giusto che fosse.