A dieci anni di distanza da uno dei delitti più agghiccianti della recente storia brindisina, l’omicidio nel 2004 del 17enne oritano Joseph De Stradis, sequestrato, massacrato a colpi di martello, bruciato e seppellito nella sabbia ancora in vita, la giustizia compie l’ultimo, definitivo passo. Luigi Caffa, uno dei tre partecipanti alla spedizione, all’epoca 20enne e fino a oggi a piede libero, è stato condannato definitivamente a 16 anni di reclusione per l’assassinio del ragazzo, colpevole d’aver difeso una sua coetanea dalle attenzioni del falegname 61enne Francesco Fullone, divenuto poi il suo carnefice. La Cassazione si è pronunciata in merito lo scorso 11 marzo per la seconda volta – dopo che la prima condanna d’Appello era stata annullata e rinviata – chiudendo definitivamente anche per lui il capitolo giudiziario di una vicenda che sconvolse l’Italia intera.
Prima di Luigi Caffa, difeso dall’avvocato Giuseppe Pomarico, la giustizia aveva già condannato all’ergastolo il falegname 61enne Francesco Fullone – autore materiale dell’omicidio – e a 11 anni il terzo componente del commando, allora minorenne. Per Caffa quindi, accusato di aver mantenuto la vittima mentre Fullone la massacrava, si schiudono nuovamente le porte del carcere, dopo anni trascorsi in libertà, in attesa della sentenza definitiva.
IL FATTO. Era il 20 aprile 2004 quando il branco entrò in azione. In tre costrinsero con la forza il 17enne Joseph De Stradis, per tutti Joe, a montare in macchina e lo portarono via da Oria, destinazione aldilà. Il falegname 61enne (oggi di anni ne ha 71) Francesco Fullone e due giovinastri suoi sodali, il 20enne (oggi 30) Luigi Caffa e il 17enne (oggi 27) Fabio Palazzo erano determinati: Joe l’avrebbe dovuta pagare una volta per tutte. Da tempo aveva fi ccato il naso nelle faccende di Fullone, moglie e tre figli, e scoperto che questi aveva molestato e continuava a importunare una ragazzina sua amica. L’ultrasessantenne non sopportava che Joe frequentasse la ragazza e cercasse addirittura di proteggerla dalle sue morbose attenzioni. È qui che scattò “la vendetta”. I tre, come emerso dalle indagini successive quasi legati da un patto di sangue, misero in pratica un piano studiato a tavolino e sequestrarono il ragazzo. Caricatolo in macchina come un sacco di patate, gli legarono i polsi con del fil di ferro. Dapprima si diressero a Francavilla, cabina telefonica. Qui Joe chiamò, dietro “gentile” invito degli altri, proprio la ragazza: “S., sono Joe. Sono costretto. Veniamoci incontro, non roviniamo famiglie”, le disse in tono concitato. Lei capì subito, ma era già troppo tardi, il “piano” non si sarebbe fermato né lì né in quel modo. Il piano prevedeva un’escursione a mare, l’ultima volta di Joe, madre e padre all’epoca separati già da quattro anni, sulla spiaggia. Il ragazzo se l’era già vista brutta l’11 settembre 2001, quando assieme a papà Lino si era ritrovato a pochi metri dalle Torri Gemelle al momento dell’attentato. I due, pur avendo respirato terrore morte e polvere, scamparono all’ecatombe e la poterono raccontare. Forse pensarono che qualcuno, da lassù, li aveva protetti e potesse continuare a farlo. Ogni certezza svanì quella sera sul fi nire dell’aprile 2004. Da Francavilla a Torre Borraco, marina di Manduria, il viaggio dovette essere pesantissimo per Joe, relegato sui sedili posteriori e tenuto a bada da due dei suoi carcerieri (il terzo era alla guida). Tra essi, finanche quello che fino a pochi istanti prima reputava un amico, uno dei suoi migliori amici: Fabio Palazzo, 17enne come lui.
Una volta sul litorale jonico, la penultima fase del “disegno”, quella delle percosse e della tortura (è emerso pure il particolare di sevizie con un cacciavite), aecondo le indagini preordinata all’uccisione. Il colpo di grazia o meglio i colpi di grazia furono assestati, però, con un corpo contundente, si presunse un attrezzo da lavoro del carpentiere, probabilmente un martello, poi bruciato. L’ultima fase consistette nel seppellire il povero ragazzo, creduto defi nitivamente morto. Gli fu scavata una fossa nella sabbia e in fondo vi fu scaraventato il corpo senza sensi. Joe, si è scoperto in seguito, respirava ancora quando si ritrovò nel sottosuolo. In sostanza, agonizzante, soffrì ulteriormente. I tre balordi, Fullone, Caffa e Palazzo, dopo la “missione” ecero ritorno a Oria. La “mente” del branco, l’ideatore della spedizione punitiva, l’artigiano, non era affatto pago dell’impresa poco prima portata a compimento. Così, di rientro a casa, decise di far visita al padre di Joe suo conoscente, il signor Lino, dal quale si fece addirittura offrire un caffè. Come se nulla fosse accaduto, come se non gli avesse ucciso il figlio. Il cadavere, in cattivo stato di conservazione com’era ovvio che fosse sotto l’arenile, quattro giorni dopo la sepoltura fu scoperto per caso da alcuni passanti: dalla sabbia spuntava una scarpa. Era di Joe. Le indagini partirono a razzo e il clamore di un crimine così efferato balzò ai disonori delle cronache nazionali. I responsabili, inizialmente recalcitranti poi collaborativi con le forze dell’ordine, vennero presi a stretto giro di posta. Pure il movente fu ricostruito in brevissimo tempo. Da qui presero avvio le vicende processuali di Francesco Fullone, Luigi Caffa e Fabio Palazzo, a conclusione delle indagini tutti rinviati a giudizio.
Emilio Mola